Pane_12_01

di Cristina Viti 

Dio ci incontra. Oh sì, questo è certo, eppure mi domando: come ci incontra Dio? Cosa fa per venirci incontro?

A volte Dio ci viene incontro, facendosi scorgere da lontano lungo il sentiero della nostra vita, oppure sorprendendoci in maniera inaspettata. Altre volte Dio ci incontra sì nelle nostre vite, ma lo fa con discrezione e amorevolezza, lo fa lì dove noi ci fer- miamo, dove siamo in difficoltà: Egli ci incontra proprio quando sentiamo maggiormente la sua assenza. Tempo fa è morto un caro amico; era malato e soprattutto era tremendamente depresso, ed è stata proprio la depressione a spingerlo a togliersi la vita. In situazioni come questa è forte il desiderio di urlare e di lasciarsi andare al pianto. Purtroppo, nella socie- tà dei “forti” in cui viviamo, troppo spesso ci hanno inse- gnato che “certe esternazioni” delle nostre emozioni non vanno bene e devono essere tenute sotto controllo.

Ma in quanto donna, sono ricca di emozioni e di stati d’animo intensi e spesso contra- stanti. Sono un essere umano fatto di carne e sangue, ossa scricchiolanti e scombussolamenti emotivi. Ho cercato conforto nella Scrittura, e la Scrittura mi ha parlato e mi ha mostrato un altro essere umano che, esattamente come me, si rallegra, si arrabbia, si indigna, soffre, patisce e piange. Questo uomo è Gesù.

In particolare vorrei condi videre con voi alcune riflessioni sul fatto che Gesù piange.

Nel vangelo di Giovanni, al capitolo 11, l’evangelista ci racconta la resurrezione di Lazzaro. Al versetto 35, il più breve di tutto il Nuovo Testamento, viene detto: «Gesù pianse».

Anche Luca, nel suo vangelo, mensiona questa espressione del sentimento di Gesù, quando ci dice che Egli pianse su Gerusalemme e da quel pianto scaturì il suo lamento per la città; ma nel racconto di Giovanni, la sofferenza di Gesù è personale, è concentrata su una perdita vissuta come un dolore individuale: la morte dell’amico Lazzaro.

Il capitolo 11 del vangelo di Giovanni è fonda- mentale perché sarà dopo gli avvenimenti qui narra- ti – la resurrezione di Lazzaro da parte di Gesù – che i capi dei sacerdoti cercheranno il modo di farlo morire.

«Gesù pianse»: solo due parole, eppure attra- verso di esse si apre un mondo di possibilità e

amore. Quando leggo questo versetto immagino un Gesù totalmente uguale a me, che si lascia prendere dalla paura, dal dolore, dalla sofferenza. Gesù non si allontana dagli sguardi di chi lo circonda per andare a piangere in privato, non si nasconde, non reputa il piangere qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa che mette in mostra la sua debolezza. Al contrario, Gesù esprime tutta la sua forza con le sue lacrime, la forza del grande amore che provava per l’amico, che non c’era più. E proprio davanti al luogo della sepoltura di Lazzaro, davanti alla realtà della morte Gesù si commuove.

Qui c’è una nuova possibilità per noi: anche io, anche noi possiamo piangere. Piangere non è una dimostrazione di debolezza, una cosa «da femmine» – come purtroppo ci hanno abituato a pensare – ma piuttosto una dimostrazione della forza e dell’inten- sità dei nostri affetti e della nostra vitalità. Sì, pro- prio del nostro essere vivi.

Sono tanti i passi biblici che ci fanno cogliere questo aspetto. Le Scritture non negano la tristez- za, basti pensare ai Salmi, che sono sempre molto attenti alla sofferenza umana. Siamo vivi, siamo vive con tutti i nostri limiti, le nostre gioie e i nostri dolori.

Se Gesù piange, autorizza anche me a farlo. Non voglio nascondermi, non avrò timore e soggezione, non mi vergognerò delle mie emozioni. E posso stare certa che la mia tristezza sarà mitigata e addol- cita dalla speranza che Gesù, così completamente umano, ma allo stesso tempo, così completamente divino, mi ha promesso. Il messaggio del vangelo è quello di sempre: la speranza è l’ultima parola.

L’apostolo Paolo dice ai suoi fratelli e alle sue sorelle di Tessalonica: “Non siate tristi” (I Tess. 4,13). Paolo aveva annunciato l’imminente ritorno di Gesù che però tardava, e così dinanzi alla morte di alcuni membri della comunità, i credenti tessalonicesi cominciavano a disperarsi sul loro futuro, sembra- no aver perso la speranza. Proprio la speranza che, insieme alla fede e all’amore, permette al credente di attendere l’intervento risolutivo di Dio in questo mondo e di superare le tribolazioni della vita.

Per dare fondamento alla speranza vacillante dei suoi amici, fratelli e sorelle, l’apostolo Paolo richiama prima di tutto l’evento su cui si fonda la loro fede: «noi crediamo infatti, che Gesù morì e resuscitò». Così come Dio padre ha strappato Gesù suo figlio dagli artigli della morte, così farà con tutti i figli, e le figlie che sono morte. Il Dio padre, creato- re, datore di vita, continuerà a suscitare vita.

Dio è fedele al suo amore che crea la vita anche là dove regna la morte. Tutto è affidato al suo amore, da Lui dipende il futuro di vita oltre la morte. La speranza può nascere e crescere solo dentro l’orizzonte della fede in questo Dio che ci viene incontro nel volto umano di Gesù di Nazareth. Fratelli e sorelle, facciamoci pervadere dalla speranza: la speranza che il Cristo risorto ci dona con immenso calore e amore. Noi crediamo infatti che Gesù morì e resuscitò, e anche «noi verremo rapiti sulle nuvole a incontrare il Signore nell’aria e così saremo sempre con il Signore» (I Tess. 4,17).

Amen