intervista a Carmine Bianchi
Dipartimento Chiese Internazionali (in inglese: International Church Department, ICD). A lui abbiamo rivolto alcune domande.
— Cos’è il Dipartimento Chiese Internazionali?
«Il Dipartimento è un gruppo di lavoro dell’Unio- ne Cristiana Evangelica Battista d’Italia (Ucebi): ci occupiamo dell’inserimento delle chiese di stranieri nell’Ucebi; inoltre, lavoriamo con gli italiani e gli stranieri per favorire la conoscenza reciproca. Infine collaboriamo con il Servizio Rifugiati e Migranti e con il gruppo di lavoro «Essere chiesa insieme» della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei)».
— In che rapporto sono le chiese internazionali e quelle italiane?
«Alcune delle comunità composte da immi- grati si sono inserite attivamente; altre, pur non condividendo un cammino con le chiese italiane, sono in stretto rapporto con il Dipartimento. Inoltre vi sono chiese con le quali i rapporti non sono mai iniziati, ed altre che negli ultimi anni hanno raffreddato il loro interesse per l’Unione».
— Spiegati meglio, puoi farci qualche esempio?
«Chi ha vissuto per qualche tempo all’estero, sa che è molto facile per l’immigrato ghettizzar- si e frequentare esclusivamente persone del proprio paese. In Svizzera o in Germania, ad esem- pio, difficilmente le chiese italia- ne hanno avuto rapporti con le chiese svizzere o tedesche, e i vari gruppi di italiani presenti nelle cittadine svizzere facevano fati- ca a frequentare gli svizzeri o i tedeschi al di fuori dell’orario di lavoro. Esistevano (ed esistono)
bar frequentati dai calabresi, quelli frequentati pre- valentemente dai siciliani o dai napoletani… D’altro canto gli svizzeri e i tedeschi, pur criticando que- sta ghettizzazione, non avevano un reale interesse ad avere relazioni con gli immigrati italiani perché rumorosi, disorganizzati, invadenti, non volevano imparare la lingua…
Allo stesso modo oggi constatiamo come molte chiese italiane mostrino uno scarso interesse nel processo di integrazione reciproca con le chiese degli immigrati e viceversa. Tranne alcune eccezio- ni, i pastori italiani e pastori delle chiese etniche si incontrano di rado. Raramente i membri delle chie- se italiane partecipano alle iniziative delle chiese etniche e viceversa. In generale i metodi con cui le nostre chiese vivono la loro fede sono molto lontani da quelli delle chiese internazionali e questo suscita indifferenza o peggio sospetto. Infine le diversità sia in campo teologico, sia in campo etico vengono stru- mentalizzate per affermare ciascuno la propria iden- tità invece di essere un terreno di discussione per la
mutua comprensione e per una crescita comune».
— Gli ultimi due anni (2008 – 2010) sono stati segnati dalla crisi finanziaria ed economica. La crisi ha avuto degli effetti sulle chiese internazionali?
«Sì. Molti pastori e responsabili delle chiese etniche, oltre al loro lavoro pastorale, hanno anche un lavoro secolare. Gli immigrati sono coloro che stanno pagando più aspramente il prezzo della crisi: sono i primi ad essere licenziati e per questo devono cercare lavoro dove capita. I leader delle comunità sono i primi a partire».
— Come ricade tutto ciò sul tuo lavoro?
«Spesso non ho più trovato la persona con cui avevo costruito un rapporto di fiducia e così ho dovu- to cominciare tutto da capo. Il rapporto tra l’Unione e le chiese etniche è troppo giovane per essere radi- cato nella storia della chiesa. I nuovi leader non mi conoscono e quindi bisogna ripartire da zero!».
— Quali sono i problemi che le chiese italiane incontrano con le chiese internazionali?
«Come dicevo, il problema più grande è un rap- porto diverso con la Bibbia e idee diverse sulle que- stioni etiche che riguardano l’affettività e la sessuali- tà, ma non solo.
I pastori delle chiese italiane che hanno nelle loro comunità una presenza rilevante di stranieri
si rendono conto che questi nostri fratelli e queste nostre sorelle provengono spesso da chiese con- servatrici. Per costruire una relazione è necessario riproporre negli studi biblici i concetti basilari della formazione biblico-teologica e spesso è necessario organizzare degli incontri appositamente per loro, perché la maggioranza dei nostri membri di chiesa “storici” sono teologicamente più aperti. E questo è un lavoro gravoso».
— In una parola, come vedi lo stato delle relazio- ni tra chiese italiane e internazionali?
«Bloccato. Ma non dobbiamo scoraggiarci! La relazione e l’integrazione tra etnie è un dato incon- trovertibile nella chiesa e nella società civile. Bisogna investire risorse, tempo e creatività nella relazione tra le chiese italiane e quelle internazionali».
— Da dove partire?
«Dalla formazione biblica e teologica: è la nostra priorità per i prossimi anni».
— A te la parola per una conclusione.
«Molti, fuori dalle nostre chiese, guardano alla nostra Unione con interesse perché stiamo diven- tando una fucina di multiculturalità. Vista dall’in- terno, abbiamo molto da imparare. Ad esempio le chiese internazionali hanno un entusiasmo e una spontaneità nell’annuncio dell’evangelo che noi dobbiamo rivalutare».
A cura della redazione