15-king predicadi Salvatore Rapisarda

 

Cinquant’anni fa, ad Atlanta, nel sud degli Stati Uniti, M. L. King e un gruppo di pastori, prevalentemente battisti, con le relative chiese, fondavano un’associazione (Southern Christian Leadership Conference) che possiamo chiamare Associazione cristiana per la difesa dei diritti civili. Lo scopo di questa Associazione era quello di continuare le lotte per i diritti civili lungo la scia del boicottaggio che a Motgomery l’anno prima aveva raggiunto il brillante obiettivo di mettere fine alla segregazione sugli autobus. C’erano ancora molti altri obiettivi da raggiungere, in ogni Stato e in ogni città dell’America. Si trattava di lottare perché luoghi pubblici come parchi e lunapark, ristoranti, alberghi, corriere a lungo percorso, scuole e università, posti di lavoro ecc., venissero aperti a tutti i cittadini, indipendentemente dal colore della pelle.

Oltre a questi obiettivi, in prospettiva, si trattava di ottenere il diritto di voto per i neri, già stabilito nella Costituzione americana sin dal 1870, ma attuato solo in casi rarissimi. Di estrema importanza era anche la lotta, che King chiamava guerra, alla povertà e per un progresso generale della società americana, perché si incamminasse lungo la via della giustizia per tutti e dell’abbandono della guerra.

In questa lotta condotta con metodi non violenti quali marce, sit-in, boicottaggi, viaggi su autobus segregati, ruolo importante, anzi determinante, giocano tre elementi: la convinzione di condurre una battaglia giusta, la prontezza a pagarne i costi (aggressioni della polizia con idranti, manganelli e cani, imprigionamenti e processi ingiusti), il numero delle persone attive.

Le chiese battiste, metodiste, pentecostali hanno avuto un grande ruolo in queste lotte. Nelle chiese si ascoltava la predicazione della parola di Dio, predicata da persone come King e dagli altri leader dell’Associazione. La parola predicata era sempre una parola che annunciava la liberazione voluta da Dio per tutti i suoi figli e figlie; una parola che mostrava Gesù Cristo come perfetto modello di chi non si arrende al male ma lotta per il bene, anche a costo di pagare con la propria vita; una parola di amore per il prossimo, anche per il nemico. È alla luce dell’evangelo che i neri non lottano contro i bianchi, ma anche per i bianchi, perché vengano liberati dal peccato del razzismo e della mancanza di amore.

Possiamo soltanto immaginare lo stato di fervore di quelle comunità raccolte ad ascoltare la forte predicazione del pastore King. Esse non soltanto ascoltavano, ma partecipavano attivamente con le loro voci, i loro amen, le loro preghiere, il loro canto. Il culto in quei momenti non era una questione di routine, ma toccava tutte le corde del cuore, della mente, del corpo. Sentirsi dire che una chiesa che non si preoccupa della condizione dei poveri nei ghetti è una chiesa spiritualmente morta, significava comprendere che l’evangelo è vicino a chi è discriminato, povero, oggetto di ogni tipo di violenza. Per questo i neri, e alcuni bianchi, anche pastori, si sentivano pronti ad affrontare la polizia con i suoi manganelli e i suoi cani. Scendevano in strada dopo aver pregato, uscivano dalla chiesa cantando. Marciavano come Israele che esce dalla schiavitù d’Egitto, certi di andare incontro alla terra promessa, alla terra della libertà.

Quelle chiese, quei pastori, quei fratelli e sorelle di chiesa hanno compreso bene che non si possono dire e non ci si può accontentare di «pie banalità» quando la società e il mondo sono nell’incendio dell’ingiustizia, della sofferenza a tutti i livelli, della guerra che distrugge l’ambiente, che sparge il sangue di migliaia di vittime e che deturpa il corpo e l’anima dei reduci. Quelle chiese, per bocca di M. L. King, hanno voluto dire alla società americana che deve convertirsi, che deve cambiare radicalmente le sue priorità. Quelle persone lanciano il loro appello alla vita nuova, alla nuova nascita, anche alle stesse chiese che non hanno ancora capito come si vive l’evangelo in un mondo in fiamme.

Quando i dimostranti, molti fratelli e sorelle di chiesa,  conducevano le loro dimostrazioni non violente, affrontando la polizia con le sue brutalità, la scena si svolgeva sotto gli occhi di altri. Molti si limitavano a guardare, altri stavano dalla parte della polizia, altri ancora alzavano le spalle in un gesto di disinteresse, forse infastiditi, forse convinti che quello non era il momento né il modo di richiedere i propri diritti.

La celebrazione del cinquantesimo anniversario della fondazione della SCLC che l’Unione delle chiese battiste in Italia (Ucebi) sta organizzando con diverse iniziative in tutta Italia e che si concluderanno in un convegno nazionale a Roma il prossimo ottobre, vuole in primo luogo parlare a noi oggi e vuole che ci poniamo alcune domande semplici ma essenziali.

Tra queste ci chiediamo: la nostra chiesa è in grado di ascoltare il grido di dolore di chi è nella miseria? Come credenti siamo disposti a pagare di persona per una società e un mondo più giusto non soltanto per noi nell’immediato, ma anche per le generazioni future? Siamo disposti a convertire le nostre pratiche di chiesa in modo da evitare «pie banalità» e disquisizioni inutili, per predicare l’evangelo che incide a beneficio del corpo della società e delle persone? Siamo pronti a mettere le nostre chiese a disposizione di quanti si impegnano per progetti di sviluppo culturale, materiale e spirituale?

King chiedeva una rivoluzione culturale; non temeva di essere accusato di essere un agitatore; sapeva andare in prigione nella ferma convinzione che da una sofferenza oggi sarebbe nato un bene grande per il domani. Anche noi, dopo aver ascoltato la predicazione di King, dopo aver pregato vogliamo scendere in pizza cantando «We shall overcome» (Noi trionferemo).