Ore 10,00. Tribunale monocratico, sezione penale. Inizia l’udienza per la convalida degli arresti eseguiti nel corso delle ventiquattro ore precedenti. Come ogni mattina, le panche dei fermati ripropongono, con puntualità disarmante, il medesimo e più vario scenario: giovani visi sonnolenti, occhi smarriti, talora inconsapevolmente risoluti, ghigni amari, singhiozzi disperati. Ma chi sono?
In attesa che arrivi il giudice, gli avvocati, d’ufficio o in cerca di lavoro, provano a scoprirne il nome, la storia, la provenienza. Ma i potenziali clienti non parlano né comprendono l’italiano, forse solo qualche parola. Ragazzi e ragazze di altra cittadinanza appena giunti in Italia… magari proprio qualche ora prima di essere coinvolti, da amici esperti, in una disperata illegalità o di essere colti senza permesso di soggiorno.
Ed ecco che nel breve volgere di poche ore le speranze poste nell’agognata terra del promesso lavoro, del promesso aiuto per i cari lontani, della promessa di un futuro ridente si frantumano dietro le sbarre di una casa custodiale prima, nelle righe di un decreto di espulsione poi!
Eppure tutto questo è giustizia. La giustizia di un diritto che ci rende padroni della terra che abitiamo e che biasima gli sradicati. La giustizia di una legge che fa dello straniero un nemico da combattere, allontanare, emarginare. La giustizia della nostra paura per un vicino che non conosciamo più e che dalla colpa di uno presume la condanna dei tanti, senza ammissione di prova contraria.
Una giustizia tutta umana che non comprende la illogica ingiustizia del messaggio biblico: «Quando qualche forestiero soggiornerà con voi nel vostro paese non gli farete torto. Il forestiero che soggiorna fra voi lo tratterete come colui ch’è nato fra voi, tu l’amerai come te stesso; poiché anche voi foste forestieri nel paese d’Egitto. Io sono l’Eterno, l’Iddio vostro» (Levitino 19, 33-34); «Voi dunque non siete né stranieri né ospiti; ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio» (Efesini 2, 19).
È forse giusto un Dio che non ci consente di ritenerci arrivati o radicati in terra nostra, di usare di questo mondo con arroganza di potere e che vuole garantire prima di tutto il diritto degli sradicati?
È forse giusto un Dio che nell’incontro tra stranieri ed ospiti vede opportunità di crescita e di sviluppo umano e non cause di disagio?
È forse giusto quel Dio di Abramo che per amore del giusto salva l’empio?
È nel mentre della domanda che scopriamo la conferma dell’unicità della Sua Parola, che passa per l’incapacità della creatura umana e dei suoi falsi idoli di fare giustizia ai deboli, agli empi, agli ultimi.