Ho conosciuto Aurelia quando era già anziana. Ne avevo sentito parlare spesso e il suo nome così altisonante e storicamente importante proprio non corrispondeva a quanto vidi quando finalmente decisi di accompagnare mia madre a farle visita. Era una donna piccola, magrolina, con sottili capelli bianchi di media lunghezza mantenuti con un ferrettino sulla fronte: con il vestitino garbato e lo scialle di lana sulle minute spalle, seduta sulla sua sedia in cucina sembrava proprio una bambolina, come mi diceva il mio fratellino in Cristo Domenico che, essendo vicino di casa, l’andava a trovare spesso.
Non vedeva più ormai e figli e figlie facevano a turno per stare con lei in una casa molto accogliente al primo piano di un atrio dal gusto antico con lisce chianche, pareti incalcinate di bianco, vasi, portoncini e piccoli archi storti.
Non ci eravamo mai incontrate, eppure quando aveva sentito i nostri nomi ci aveva subito riconosciute. Ma come era possibile? Sapeva di quando non abitavamo a Mottola, di quando avevamo predicato, condotto liturgie… ci conosceva.
Aurelia si era convertita quando era giovane e con lei soltanto un figlio, Donato: ecco l’informatore! Di ogni domenica, di ogni incontro svoltosi in chiesa, di ogni novità: addirittura l’aveva aggiornata, anche con altre sorelle che sempre le facevano visita, circa i canti nuovi, quelli della raccolta «Cantiamo insieme» di cui conosceva bene le parole.
Quando Donato si convertì con sua madre, suo padre non si oppose e per quei tempi già era tanto, ma se avesse voluto andare in chiesa avrebbe dovuto prima governare il bestiame, pulire tutto e poi andare al culto domenicale.
Abitavano in campagna, nella contrada Dolce Morso a diversi chilometri da Mottola e, se la mamma non poteva fare tutta quella strada a piedi, certo questo non intimoriva e scoraggiava il giovanissimo e vigoroso Donato: ogni domenica si alzava prestissimo, portava a termine il suo lavoro sotto lo sguardo attento del padre e poi via a piedi verso il paese.
Sotto qualsiasi cielo, con instancabile caparbietà a grandi e veloci passi lo possiamo vedere lasciare la sudata campagna alla volta di quella collina tutta da conquistare per giungere in tempo al culto: ecco il perché di quella sua falcata larga quando cammina!
Sempre presente in chiesa, sempre il primo ad arrivare e, anzi, è lui che da mezzo secolo apre con almeno 30 minuti di anticipo le porte del locale, sistema al millimetro le sedie, distribuisce gli innari che a fine culto rimetterà a posto; durante la settimana mette in ordine, cura le piante, innaffia, spazza e pulisce.
Anche se non sa leggere, canta tutti gli inni, cambiando le parole o non pronunciandole bene ma con il cuore. E poi prega ad alta voce per le persone anziane, per quanti non sono potuti venire in chiesa, per gli ammalati che va a trovare e di cui porta i saluti, e per «il genitore», la mamma, che sta poco bene; a volte anche un riferimento agli stacciùm’n, le statue, a cui altri rivolgono le preghiere che, invece, vanno solo a Cristo il Salvatore. E conclude sempre con una formula che più o meno suona «Ti preghiamo, tu che sei il Padre Eterno. Amen!».
A fine culto ti abbraccia quasi accoccolandosi e magari ci aggiunge un “… ve’ cuscìn!” (vai a cucinare!).
Tutto questo fino a quando Aurelia non muore.
Il 14 febbraio 2000, infatti, Donato cade nello sconforto non soltanto perché ha perso la mamma, ma anche perché ciò significherà stare periodicamente con un fratello o una sorella diversa e non tutti abitano a Mottola.
Donato non può stare da solo: all’età di 12 anni circa fu colpito da una febbre molto alta, forse una meningite, e questo lo ha segnato per tutta la vita. Ora, poi, ha 79 anni. Il mese di dicembre, infatti, non potrà frequentare poiché è in un altro paese.
Non lo vediamo più ogni domenica, non apre più in anticipo il locale, non ci sono più innari da sistemare… ma Donato è da sempre un esempio per noi: esempio di fede instancabile, pura e semplice, fede viva!
Il Signore ha guarito Donato e attraverso di lui ha risanato anche noi che, nella sua esistenza lambita dal rischio di essere inutile e di peso, abbiamo visto e vediamo ancora risplendere la luce della speranza che a tutto ridona significato e dignità.