La maternità – adesso che la intervisto è all’ottavo mese della seconda gravidanza – ha fatto bene a Sandra Spada: è più allegra e colloquiale di come la ricordo, ragazza, nei due anni di prova in Piemonte, quando ci vedevamo a Torino alle riunioni dei pastori e predicatori del mercoledì, per preparare a turno le note esegetiche e omiletiche per la predicazione. Sicilianissima – di Carlentini il papà, di Catania la mamma – è di famiglia battista in ambedue i rami: «I miei genitori si sono convertiti indipendentemente l’uno dall’altro – precisa – e le mie sorelle ed io siamo cresciute nella chiesa del pastore Salvatore Raiti, una delle due chiese battiste di Lentini, che dopo la sua morte iniziarono un percorso di ricongiungimento, e si unirono poi con la chiesa di via Caltanissetta, dove era pastore quello che noi ragazzi abbiamo sempre chiamato Lello – cioè il past. Raffaele Volpe, attuale presidente dell’Ucebi). Con Lello ho cominciato a frequentare il gruppo giovani (che prima non esisteva), e devo dire una cosa insolita: che per me è venuta prima la scelta di voler studiare teologia per diventare pastora che non la scelta del battesimo!».
Scelta insolita davvero. Qual è stato il tuo percorso di fede? «Avevo 16 anni quando mi sono chiesta per quale motivo andavo in chiesa, ed è stato un percorso sofferto: mi confrontavo con i personaggi biblici, e non avevo la loro fede, e così stavo male; ma pregare, meditare e leggere la Scrittura mi aiutarono molto. Successe una domenica mattina che ero stata molto pensierosa durante il culto, quando Lello disse ‘Amen’ dopo la predicazione – che, presa nei miei pensieri non avevo seguito – si accese una luce dal fondo del tunnel in cui ero e mi dissi: ‘devo diventare pastora’! Però non conoscevo nessuno che avesse fatto questo mio percorso, e per un anno e mezzo non riuscii a parlarne: non era facile accettarlo dentro di me, e io mi ero formata con un insegnamento molto tradizionale, per cui non mi sentivo degna di studiare teologia. Però, in questo viaggio interiore, alla fine mi sono avvicinata alla fede con un gioioso sì, e ne ho parlato con Lello, che ne è rimasto entusiasta, e poi con la mia famiglia: le mie sorelle sono state solidali, anche se mia mamma mi mise davanti tutte le difficoltà di questa scelta, ma io ero già pronta ad affrontare gli ostacoli. Per andare in Facoltà bisognava essere battezzati, e quindi questo percorso di morte e rinascita del battesimo è avvenuto contemporaneamente alla mia vocazione».
Come è stata la tua esperienza alla Facoltà valdese di Roma? «Io avevo 19 anni, avevo appena finito le superiori – venivo dall’istituto tecnico – conoscevo la Federazione Giovanile Evangelica Italiana (Fgei), avevo lavorato nei campi giovanili; però una cosa diversa era andare a vivere in convitto, e lì mi sono confrontata con i primi problemi. Ero arrivata in facoltà con un’idea mitica, tutta fiori e cuoricini, ma mi sono trovata di fronte a un pezzo di mondo nel mondo. Gli studi erano impegnativi, i professori erano estremamente disponibili, la vita in convitto era dura ma importante: c’erano scontri tra le persone, io ero una delle più piccole… per me c’è stato un salto di coscienza: anche le nostre chiese sono fatte di peccatori, e lo sanno. Poi vivere a Roma ha significato avere contatti maggiori, entri a pieno titolo nel mondo della Fgei a tutto tondo (la Fgei ha sempre attinto dalla Facoltà): questo è formativo, impari a lavorare con altri giovani che vengono da chiese diverse dalla tua»
In che cosa ti sei laureata? «Ho fatto una tesi biblica su un testo dell’Antico Testamento riletto nel Nuovo Testamento: la rilettura di Is. 6, 9-10 citato da Gesù nei Vangeli e ripreso negli Atti degli Apostoli: ho studiato le interpretazioni di questo testo. Sono stata un anno all’estero per raccogliere il materiale su questa tesi; ero a Manchester, in un College della United Reformed Church, grazie a una borsa di studio della ‘Waldensian Fellowship’. Rientrata in Italia, ho lavorato alla stesura della tesi con i prof. Garrone e Redaliè e mi sono laureata a gennaio del 2003. A febbraio ero già pastora in prova a Cuneo e Mondovì, dove sono stata due anni: accolta e coccolata, pur con qualche difficoltà, dovuta alla mia inesperienza, ma ricordo con affetto tante sorelle di chiesa. È stato molto positivo l’aiuto del pastore di riferimento, Franco Casanova, mai invasivo, sempre pronto a darmi consigli, come anche il past. Emmanuele Paschetto, e il confronto settimanale per le schede omiletiche con gli altri pastori del Piemonte»
C’è stata poi la scelta della chiesa di Mottola, in Puglia, dove Sandra è stata 5 anni, ed ora è tornata nella sua comunità originaria, a Lentini e Floridia, inizialmente anche Siracusa, perché «Ho sempre desiderato tornare come pastora in Sicilia, dove c’è difficoltà a coprire le sedi pastorali. Mottola è stata una bellissima e formativa esperienza, una comunità che ti spinge a lavorare a 360°, con un’infinità di rapporti – Bmv, ecumenici, nel sociale, con l’Associazione battista pugliese».
Qual è la tua esperienza del pastorato femminile? «Fin dal periodo di prova mi sono resa conto che non è così scontato nelle nostre chiese, anche in quelle più aperte: c’è una resistenza psicologica, ad esempio al momento della maternità, che viene percepita come qualcosa che toglie tempo alla comunità. In alcune persone c’è ancora l’idea del pastorato totalizzante, una volta non si muoveva sedia in chiesa se il pastore non voleva… Io invece lavoro in equipe e ho imparato a decentrare. Saverio Guarna usava un’immagine sul ruolo del pastore: “la chiesa è come un esercito, i soldati hanno bisogno di nutrirsi per andare avanti e combattere, e il pastore è il cuoco”. L’immagine è bellica, e non mi piace, ma rende l’idea del nutrimento che deve dare il pastore. Una pastora ad esempio fa cura d’anime in modo diverso; le chiese spesso rilevano la fermezza, ma anche la dolcezza nel pastorato femminile: una volta qualcuno mi ha detto: “Tu ci bacchetti, ma non ce ne accorgiamo!”. Quello che ho imparato in questi anni è che le chiese ti chiamano a metterti continuamente in discussione, sia nel confronto col testo biblico, sia nei confronti delle persone, dentro e fuori delle chiese: è un percorso di nuova nascita che non finisce mai: è un continuo interrogarsi, cercare di capire cosa vuol dire essere serve della volontà di Dio e non della nostra, nella certezza, però, della salvezza».