camminanoLidia Maggi

 

Il tema del divorzio è terra di sofferenze per chi lo vive sulla propria pelle e campo di battaglia per altri che vi leggono l’ennesimo frutto avvelenato di una deriva relativista.

La tentazione è quella di voler ricercare nelle Scritture risposte sicure al riguardo, terreni stabili pro o contro.

Chi va al testo biblico cercando conferme, pezze giustificative per le proprie convinzioni può rimanere deluso. La Bibbia si sottrae a questo uso strumentale. Lo fa scegliendo di raccontare storie: vicende normali che precipitano e piccole resurrezioni. Per questo possiamo riconoscerci e leggere tra le righe di quelle narrazioni il nostro vissuto.

La verità biblica non ci viene consegnata come una ricetta attraverso un singolo versetto risolutore: essa si dischiude in un dialogo intenso ed appassionato. Dio ci parla così.

 

Amori concreti

Del resto chi non fatica a riconoscere la propria storia in quei riferimenti a famiglie idealizzate? Ci accompagna il sospetto di un linguaggio ideologico sul tema che aiuta poco le coppie reali.

Quando, invece, ci accostiamo al testo biblico, ci sentiamo finalmente a casa tra le storie imperfette dei patriarchi, tra le gelosie di sorelle che si contendono lo stesso uomo o di mariti codardi che arrivano persino a vendere la propria moglie per salvarsi la vita.

Questo sentirci accolti non annulla le distanze poiché la Scrittura ci fa anche intravedere un mondo lontano, abitato da beduini, pastori, re, contadini e pescatori; popolato di storie arcaiche, con strutture familiari così lontane dalle nostre, dove la poligamia è di casa ed il patriarcato deforma la dignità di donne e uomini…

In questo movimento di vicinanza e lontananza scopriamo un Dio che usa il linguaggio umano per comunicarci la sua Parola. La vicenda di Dio con il suo popolo sembra addirittura percorrere la stessa parabola delle nostre relazioni amorose.

 

Dio e Israele, una storia d’amore

Non a caso, l’immagine sponsale ricorre così frequentemente per esprimere il legame che unisce Dio a Israele. Non è una storia semplice: la relazione matrimoniale tra i due è burrascosa, sempre sul crinale del precipizio. Altro che amore felice, coppia ideale! Volano piatti, parole graffianti: ci sono porte che sbattono e urla irripetibili in questa strana coppia. I profeti, che usano metafore sponsali per descrivere questa passione, a volte appaiono come gli avvocati di parte in una causa giudiziaria di divorzio; più spesso come poveri consulenti matrimoniali che tentano di mettere assieme i pezzi di un rapporto in frantumi.

L’insistenza sul rapporto amoroso per descrivere la relazione tra Dio ed il suo popolo ci fa intuire la centralità della relazione a due. 

Ora, per affrontare una riflessione sul divorzio, il primo filo da evidenziare nel tessuto della narrazione biblica è proprio questo: Dio conosce le fatiche delle storie affettive, gli alti e i bassi delle relazioni sponsali. Li conosce così a fondo da farlo diventare il linguaggio privilegiato per raccontare la sua passione per l’umanità.

 

Legami a rischio

L’amore è un rischio il cui esito felice non è per niente scontato. Lo spazio della relazione apre a scenari di libertà, ma può anche chiudere, imprigionare, soffocare. Chi ama sa che quella storia d’amore, su cui scommette e per cui è disposto a lavorare, può andare bene ma può anche fallire. Un amore può ammalarsi fino a morire e trasformare in deserto il giardino.

La Scrittura non tace le difficoltà nelle relazioni affettive: le racconta fin dalle prime pagine. Narrando la vicenda dei nostri progenitori, archetipo della coppia, troviamo gli ingredienti che combinano il linguaggio alto della vocazione all’amore e la verifica esperienziale del continuo fallimento.

La prima difficoltà la deve affrontare Dio stesso, che non riesce a trovare una creatura che corrisponda ad Adam. La parata zoologica (Gen 2, 19-20), vuole probabilmente conservare la memoria della cautela necessaria per trovare il partner giusto. L’amore richiede una scelta. Un concetto che può sembrare moderno, presente, invece, fin dal primo innamoramento. Solo quando Dio forma la donna dal lato della creatura tratta dalla terra, l’uomo è in grado di riconoscerla, di sentirla vicina, parte di sé (Gen 2, 21-23) e sceglierla. Poste le condizioni per una relazione tra soggetti di pari dignità, a cui viene affidata la sfida di diventare “una sola carne”, la narrazione non procede verso un lieto fine scontato. L’amore, anche se scelto, può precipitare. Come attesta il seguito del racconto. Il linguaggio alto dello stupore precipita nel rancore: “la donna che tu mi hai messo a fianco…” (Gen 3, 11). Il legame affettivo si spezza e alla solidarietà di coppia subentra un triste scaricabarile.

Come ritrovare la comunione, l’intimità, quando l’altro ti ha ferito, quando qualcosa si è interrotto, rotto? Questa domanda risuona fin dall’inizio nella Scrittura insieme alla preziosa immagine di un Dio che si china su quell’amore ferito, vestendo le creature che si scoprono nude (Gen 3,21). Gesto di cura troppo in fretta rubricato sotto il registro della vergogna sessuale. Vi è qui, invece, un tratto decisivo del volto divino. Il Dio che veste Adamo ed Eva è il Dio che non abbandona l’amore ferito, giudicando l’inadeguatezza dei partner. Piuttosto, si preoccupa di permettere alla coppia di ristabilire una distanza necessaria per non graffiarsi, per non farsi troppo male, nell’attesa della guarigione. Quando l’intimità degenera in luogo della ferita è necessario ristabilire l’alterità, salvaguardare la singolarità di ciascuno, squalificata nel momento del risentimento.

 

Secondo le Scritture

A volte, tuttavia, nessun vestito riesce a coprire e scaldare corpi che risultano morti. Bisogna saper affrontare anche la fine di un amore, la morte di un matrimonio e la necessaria separazione.

La questione non è semplice. Quando un matrimonio cessa di esistere? Molte coppie rimangono sposate, anche dopo aver seppellito il proprio matrimonio. Non sono in grado di affrontare la gogna, i ricatti affettivi ed i giudizi taglienti dei familiari (ed anche quelli “religiosi”). O più semplicemente, non riescono a fare i conti con un immaginario che si sgretola. Si rassegnano a portare quel peso che identificano col matrimonio. Ma quando il matrimonio diventa fardello, catene, prigione, ha ancora senso rimanere assieme?

La fine di un amore è una gravissima sconfitta: viene meno un impegno, un progetto, un sogno. Il corpo si smembra e i due, divenuti una sola carne, tornano ad essere due, seppure mutilati. 

Ma l’affermare con forza la situazione di peccato e di fallimento in cui precipitano quei coniugi che vedono morire il loro amore deve necessariamente portare ad escludere la possibilità di annunciare loro il perdono divino e la conseguente reintegrazione nella comunione della chiesa?

 

Non separi l’uomo ciò che Dio ha unito

C’è un noto brano di Matteo (19, 3-9) in cui Gesù è coinvolto in una disputa dove gli viene chiesto: «È lecito mandare via la propria moglie per un motivo qualsiasi?». Il rabbi di Nazaret prende posizione, rispondendo: «Non avete letto che il Creatore, in principio, li creò maschio e femmina e che disse: “Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si unirà con sua moglie, e i due saranno una sola carne?”. Così non sono più due, ma una sola carne; quello, dunque, che Dio ha unito, l’uomo non lo separi». La risposta di Gesù suscita l’obiezione degli avversari: «Perché, dunque, Mosè comandò di scriverle un atto di ripudio e di mandarla via?». Obiezione a cui Gesù replica: «Fu per la durezza dei vostri cuori che Mosè vi permise di mandare via le vostre mogli; ma da principio non era così. Ma io vi dico che chiunque manda via sua moglie, quando non sia per motivo di fornicazione, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

Gesù prende posizione a favore delle donne, considerate inferiori agli uomini e, di fatto, in totale balia del marito. Nel contesto patriarcale di allora il maschio poteva “mandare via la propria moglie per qualsiasi motivo”. Una prassi a cui Gesù si oppone, prendendo ancora una volta la difesa dei piccoli e dei deboli. La disuguaglianza nel rapporto di coppia non è voluta da Dio: “in principio non era così”. Nasce dalla “durezza di cuore”, ovvero da un cuore ripiegato su se stesso, incapace di vedere nell’altra un soggetto con cui entrare in relazione, alla pari. Gesù si rifà a quel progetto divino iniziale per ridare dignità al soggetto discriminato, non certo per imporre un peso ulteriore.

Questo testo è stato diversamente interpretato e usato come pezza giustificativa di acquisti già fatti altrove. 

Nei versetti che precedono il brano sopra riportato, Gesù narra una parabola per parlare di un perdono illimitato (“fino a settanta volte sette”). Chi legge impara preliminarmente che siamo tutti debitori nei confronti dell’esistenza, insolventi al momento in cui si fanno i conti. Come, dunque, presumere di giudicare chi non è stato all’altezza del compito? Il giudizio suscita l’ira di Dio, poiché non “perdoniamo di cuore al nostro fratello” (Mt 18, 22-35). Non a caso le parole di Gesù contro il ripudio della donna sono precedute da parole contro il giudizio e l’incapacità di perdonare.

Chi abita le Scritture impara a conoscere, in Gesù, un Dio che si rivela molto più esigente e insofferente nei confronti di coloro che presumono di essere giusti. Costoro, che “recitano” il ruolo del santo e che sono fautori di una religiosità granitica, sono più inclini di altri a condannare e giudicare coloro che sbagliano. Durissimo il giudizio di Gesù nei loro confronti: “ipocriti”, “sepolcri imbiancati”… Il Maestro appare più tollerante con i peccati affettivi che con quelli religiosi.

 

Quando un amore muore

Incontro persone che mi raccontano delle proprie ferite d’amore, ma raramente vogliono sentirsi dire cosa fare: se rimanere in una storia o andarsene. Sanno da sole quando è il caso di interrompere la relazione e quando, invece, c’è ancora speranza, possibilità di superare il disagio. Generalmente chiedono solo di essere accompagnate nella fatica della decisione da loro presa. Domandano di essere sorrette, quando si sentono abbandonate; chiedono di non essere condannate, se decidono di seppellire la loro storia affettiva ormai deceduta.

Come si distingue un amore malato da una relazione ormai morta? In nome di quale Dio imprigioniamo una coppia al proprio errore? O la induciamo con troppa leggerezza a mettere fine al legame coniugale? 

Non sono quiz a cui dare la risposta esatta. Sono domande pesanti, che mettono in gioco la qualità della fede e della vita.

Le nostre chiese sono abitate da persone separate, divorziate, risposate, conviventi e, grazie a Dio, anche da tante coppie solide, sposi che attraversano assieme “per tutta la vita” le gioie e le tempeste della vita.

Il matrimonio indissolubile esiste per molte coppie, ma non per tutte. E questo accade, che ci piaccia o meno, anche nella Bibbia.

Quali spazi possiamo offrire a chi sente la necessità di elaborare il proprio fallimento? E insieme: quali possibilità di redenzione per chi ha sbagliato, per chi era come morto ed è tornato in vita? Ci sono possibilità di riscatto nelle nostre chiese per chi sbaglia, per chi si separa, per chi si riapre all’amore?

È urgente poter annunciare una fede che sia veramente esperienza pasquale e non di giudizio e morte anche per coloro che hanno sperimentato il fallimento nella loro storia affettiva perché il nostro Dio è un Dio dei vivi non dei morti.