lidiaLidia Maggi

 

Ci ritroviamo a Chianciano alla recente Assemblea generale dell’Unione battista con Lidia Maggi, a tu per tu dopo tanti anni: quanti? Una ventina, forse – abbiamo ricostruito insieme – perché la prima sua testimonianza dev’essere stata del ’93 o ’94, uscita su “Voci di donne” (Claudiana) nel 1999: io in vari anni avevo raccolto quelle interviste man mano che ne avevo occasione, e non era facile, con chiese disseminate in tutt’Italia. Ma ci sarebbe ancora da fare moltissimo, data la ricchezza e complessità della presenza femminile: mi propongo sempre un terzo volume, e chissà! Intanto Lidia ha lavorato molto, un’infinità di convegni e incontri ecumenici, e ha scritto molto: ricordiamo, tra le altre le ultime pubblicazioni per la Claudiana “Le donne di Dio” (2009), “L’evangelo delle donne” (2010), e con Angelo Reginato “Dire, fare, baciare” (2012).

«Gli anni ’90 sono stati anni di grande formazione – mi aggiorna – perché sono stati per me l’inizio del pastorato, l’incontro con una chiesa concreta, ed è la chiesa che ti forma. La mia esperienza, in particolare con la comunità di via Jacopino da Tradate, a Milano, è stata per me una vera scuola. Da questa comunità ho appreso tre passioni: l’ecumenismo, la laicità, il rapporto tra battisti, metodisti e valdesi (Bmv). Una vera conversione che mi ha strappato al rischio di una fede autoreferenziale per farmi conoscere tante chiese sorelle. Milano è stato un grande laboratorio. Anche “la conversione BMV” è stata intensa: scoprire la responsabilità di mostrare un volto unito del protestantesimo, per testimoniare che un altro modo di vivere la fede cristiana è possibile in un contesto a maggioranza cattolica. Una fede dove viene abbattuta la diversità di genere, dove è permesso a ogni persona di essere leader».

Le chiedo ora di raccontare quest’esperienza d’incontro: «Ho conosciuto personaggi di grande statura intellettuale e spirituale – risponde Lidia – come in campo cattolico l’arcivescovo e cardinale Carlo M. Martini o il poeta don Angelo Casati». Che ricchezza, quegli incontri! – penso. Ma non abbiamo tempo ora di approfondire, tra una pausa e l’altra dei lavori dell’Assemblea.

«È difficile poter rendere in poche battute quegli anni. – riflette – Ho avuto un ministero di forte impegno sociale nel territorio: le carceri, le ragazze schiave della tratta… la mia formazione era illuminata da una tensione sociale che mi caratterizzava, e al tempo stesso il lavoro sociale è stato arginato da un’istanza culturale che mi ha evitato il rischio dell’attivismo, di una militanza del ‘fare-fare’: sono grata a quegli anni, a quegli impegni che mi hanno coinvolta in un periodo difficile, con i bambini ancora piccoli. Nelle due chiese che ho servito, in quegli anni, (Milano e Lodi) ho trovato supporto, stima, affetto».

Lidia parla con la sua consueta sincerità e irruenza, ha conservato la sua bellezza, i suoi riccioli bruni, i suoi occhi scuri, vivacissimi e ironici: «Nel confronto ecumenico l’incontro con l’altro è affascinante, perché ti dà la possibilità di vedere le cose dal punto di vista dell’altro, e al tempo stesso chi ti guarda lo fa con fascino, perché sei diverso, evangelico.

Le nostre chiese si lamentano perché si vedono piccole e ininfluenti. Lo sguardo dell’altro invece ti restituisce un’altra immagine: stupore, ammirazione. Il suo sguardo ci sollecita a cogliere quella bellezza di cui siamo portatori, come protestanti e che rischiamo di non vedere più. All’esterno facciamo spesso una bella figura. Ci viene riconosciuta una credibilità che dovremmo prendere sul serio».

Da quali riflessioni sono nati i tuoi libri? «Proprio questo tema dell’alterità – risponde – è stato il filo rosso che segna la mia esperienza: guardare le cose da un altro punto di vista, per esempio valorizzare l’elemento dell’ironia presente nella Bibbia, è stato anche un tentativo di uscire da un certo modo di leggere la Bibbia come epopea. Adesso per esempio sto lavorando sugli elementi più ‘insignificanti’ del racconto biblico, i bordi del testo. Valorizzare la parzialità dello sguardo per cogliere degli elementi inediti, è stato quello che è successo a me: guardare ad esempio la mia chiesa con lo sguardo di un altro è diventata una metodologia spirituale».

A proposito di alterità, adesso sei pastora di una chiesa metodista, a Luino: «Sì, me la sono proprio andata a cercare, per fare questo esperimento, e sfatare le paure delle nostre chiese che temono di perdere identità con una collaborazione BMV più massiccia… Io che da anni lavoro nelle Federazione delle chiese evangeliche in Italia, con il Servizio Istruzione Educazione, sono convinta che dobbiamo uscire dal nostro specifico confessionalismo. Si dice che ogni chiesa è un arcipelago, e io trovo cose molto simili tra le varie comunità, sia positive, come il protagonismo dei laici, sia anche i punti di debolezza.

Siamo attraversati da tanti cambiamenti, ma ci sono cose del lavoro pastorale che non cessano di stupirmi come la possibilità di incontrare persone che sono disponibili ad aprirsi, a consegnarti parte della loro vita. Frammenti di storie spesso dolorosi. Difficile non sentirsi inadeguate rispetto a tante fatiche e sofferenze e tuttavia scopro che le persone, quando si raccontano, non si aspettano da te la soluzione al loro problema, chiedono solo di essere ascoltate e di non essere lasciate sole nella fatica della vita.

Poter ascoltare, poter soffrire con chi soffre, poter cercare dentro le Scritture il senso della vita. Questo è ciò che del lavoro pastorale continua a stupirmi. Quando ero più giovane pensavo che il dolore rendesse migliori. Mi sembrava di avere imparato così tanto dalla mia sofferenza infantile. Mi sbagliavo. Negli anni ho capito che il dolore in sé non rende buoni, non fa del bene; ciò che aiuta, che salva, è sentirsi accompagnati nella sofferenza. Adesso, guardando indietro, riconosco che, nel dolore, sono stata accompagnata da angeli, messaggeri di Dio che ho incontrato sulla strada della mia vita. Vorrei restituire un po’ dell’amore che, nel dolore, ho ricevuto e l’accompagnamento pastorale mi permette questo».

Pensi che ci sia uno specifico modo d’essere del pastorato femminile? «È difficile dirlo, mi piace molto fare la pastora, ma riconosco una difficoltà: ho bisogno di più tempo per entrare in una realtà, conoscerla, e cambiare assieme. Forse in questa fatica di capire subito le cose c’è un tratto femminile: una responsabilità educativa. La fede, come la crescita di un figlio, richiede tempi lunghi. » bandita la fretta. Forse questo è il lato femminile del ministero».