In queste pagine viene offerto un bouquet di fiori di colori, forme, dimensioni e profumi diversi. I ritratti, raccolti con il garbo e l’affetto che contraddistinguono la loro autrice, sono di dodici donne di generazioni, nazionalità, esperienze e doni diversi, italiane innanzitutto ma anche donne dal Nord e dal Sud del mondo unite da un’unica vocazione, il ministero pastorale presso le Chiese battiste in Italia.
Dodici donne (alle quali fra poco se ne aggiungeranno delle altre) numero fortuitamente simbolico perché richiama i dodici discepoli o “apostoli” scelti da Gesù. Tutti uomini. «Se Dio avesse voluto che le donne diventassero pastori e sacerdoti, come mai i discepoli erano tutti uomini?». E, prosegue questo ragionamento, «poiché ha scelto solo uomini, le donne non possono diventare né sacerdoti né pastori».
Per secoli le chiese cristiane hanno ragionato in questo modo adottando motivi biblici, teologici e culturali per negare il pastorato femminile. Le donne, però, hanno sempre cercato modi per rispondere alla loro vocazione diventando fautrici di rinnovamento e fondatrici di movimenti. Si sono sobbarcate le fatiche della vita quotidiana delle chiese, sono partite in missione, si sono impegnate in riforme sociali prodigandosi nella cura dei poveri, degli ammalati, dei bambine e delle bambine, dei carcerati. Poi è arrivata una svolta: le chiese protestanti, consapevoli di dover riformarsi sempre, hanno accolto la vocazione delle donne al ministero pastorale.
La riforma, intesa in questo senso, cominciò già nel 1820 negli Stati Uniti d’America quando i quaccheri accettarono come “ministra” Lucrezia Mott. Un secolo più tardi le chiese congregazionaliste del Nord d’Europa cominciarono ad ammettere le donne al pastorato, pratica adottata negli anni cinquanta dalle maggiori denominazioni protestanti. Successivamente, dopo lunga discussione, nel 1962 il Sinodo della Chiesa valdese in Italia approvò l’ammissione delle donne al pastorato e nel 1967 vengono consacrate le prime pastore (vedi lo studio della past. Giovanna Pons “Il ministero pastorale della donna: una lunga battaglia”, nel suo libro di sermoni e interventi “La luce buona e la luce vera” (Trauben, Torino). Le chiese battiste in Italia seguiranno il loro esempio e, mentre alcune donne cominciano ad intraprendere gli studi teologici in vista del pastorato, l’Assemblea battista del 1982 accoglie il ministero pastorale femminile e MaryLu Moore diventa la prima donna pastora nelle chiese battiste in Italia.
Come mai si è arrivati a questa svolta? Come mai dopo secoli di esclusione delle donne dal ministero pastorale si è deciso di accogliere la vocazione pastorale delle donne? Quali sono i motivi teologici, biblici e culturali che ci permettono una trentina di anni dopo quella storica decisione di presentare un bouquet così ricco, variegato, qualificato di dodici donne pastore?
Accenniamo solo ad alcune delle ragioni di tale sviluppo. Personalmente ritengo che la non discriminazione delle donne e quindi l’irrilevanza del genere ai fini del ministero ecclesiastico, appartengono al cuore del protestantesimo. L’intuizione di Lutero che dà luogo a una svolta epocale, quale la Riforma protestante, consiste nel fatto, per usare un linguaggio semplice e efficace, che siamo “salvati per grazia”. Sebbene tale intuizione sia stata declinata in tanti modi dal Cinquecento in avanti, essenzialmente essa significa che la disposizione misericordiosa e amorevole di Dio verso l’umanità è puro dono. Che l’accoglienza di Dio nei nostri confronti (accoglienza che diciamo in mille modi: perdono, liberazione, salvezza, riconciliazione, persino giustificazione) è puro dono preclude la possibilità che esso sia dovuto a ciò che siamo o facciamo. Di conseguenza, non si può attribuire nessun “plusvalore” né a ciò che facciamo (le “buone opere” per esempio), né a ciò che siamo: liberi e non schiavi, giudei di nascita e non pagani, per usare due esempi cari all’apostolo Paolo. Nemmeno l’essere uomo e non donna costituisce un vantaggio né comporta nessun privilegio nelle comunità cristiane. In Gal 3, 28 Paolo stesso tira le somme della sua intuizione di fondo: “Non c’è qui né Giudeo né Greco, non c’è né schiavo né libero, non c’è né maschio né femmina, perché voi tutti siete uno in Cristo Gesù”.
I riformatori immersi nella cultura patriarcale della loro epoca ovviamente non vedevano le cose in questo modo.
Ma nella teologia protestante c’è ancora un altro elemento che prepara la strada al pastorato femminile: il sacerdozio di ogni credente. Poiché – sempre nel linguaggio biblico – Cristo aveva offerto “una volta e per sempre” il sacrificio che permetteva alla misericordia divina di (per così dire) raggiungerci, non ci sono più sacrifici da offrire. E se non ci sono più sacrifici da offrire diventa del tutto superflua una casta sacerdotale fatta di uomini. La Riforma protestante, infatti, abolisce la distinzione tra sacerdoti e laici; mentre la chiesa smette di essere un ordine sacro (gerarchia) e si laicizza: la vita di tutti, uomini e donne, si sacralizza diventando la sfera in cui ognuno e ognuna risponde alla propria vocazione. Uomini e donne tutti sono chiamati a consacrare la propria vita al servizio di Dio sia nella chiesa sia nella società.
Se la salvezza per grazia e il sacerdozio di ogni credente sono esempi di un’impostazione teologica che al momento giusto sfocerà nel ministero pastorale delle donne, che cosa possiamo dire della testimonianza biblica con i suoi dodici discepoli tutti uomini? Almeno un paio di cose interessanti.
In primo luogo, sarebbe ora di renderci conto che per secoli le chiese di varie confessioni hanno basato la loro posizione circa “il ruolo delle donne” su un unico testo biblico, la prima lettera ai Corinzi (sviluppata poi nella prima lettera a Timoteo). Per giustificare l’esclusione delle donne dal ministero pastorale (e da altri ministeri nella chiesa) le autorità delle diverse chiese hanno utilizzato una lettera molto particolare dell’apostolo Paolo, scritta in un linguaggio tuttora astruso e indirizzata ad un contesto ecclesiale, storico, sociale e teologico che ignoriamo! In altre parole, si è servito di scritti piuttosto marginali per decidere una questione così centrale per le chiese come il ruolo delle donne! Con questo metodo le chiese hanno ignorato il nucleo del messaggio evangelico nonché l’effettivo ruolo delle donne nelle chiese delle origini.
Infatti, una lettura più attenta delle Scritture rivela, in secondo luogo, una notevole attività da parte delle donne nei primi anni del Cristianesimo. Proprio a Corinto, per esempio, le donne rispondevano al vangelo ricevuto da Paolo pregando e profetizzando nell’assemblea pubblica. Altrove sono diacone e persino apostole; lavorano insieme a Paolo, condividono le fatiche del suo apostolato, fungono da messaggeri, compiono viaggi missionari, aiutano a fondare delle chiese, insegnano nelle comunità le quali a volte vengono ospitate nelle loro case. Tale impegno delle donne trova riscontro nei vangeli che raccontano di donne che coadiuvano Gesù nella sua missione. Fanno parte della cerchia più ampia dei discepoli e alcune seguono Gesù fino alla fine. Senza di loro non avremmo il resoconto degli ultimi momenti della sua vita. Sono le donne che diventano le prime testimoni dell’atto fondante della nostra fede, la resurrezione.
Sarebbe davvero da chiederci come le chiese siano riuscite ad ignorare l’evidenza delle Scritture a favore dell’impegno delle donne nella chiesa (impegno che nel corso degli anni e con il consolidarsi dei ministeri avrebbe potuto abbracciare il ministero pastorale). Non dobbiamo andare lontano per cercare la risposta a questa domanda.
L’esclusione delle donne dal ministero pastorale è stato frutto di una cultura che girava intorno all’uomo, cultura rispecchiata nei testi biblici e che è durata quasi fino ai nostri giorni. Se a un certo momento le chiese evangeliche hanno cominciato ad accogliere il ministero pastorale delle donne questo è dovuto all’emancipazione femminile e alla profonda trasformazione che essa ha portata alle società in cui viviamo.
Il pastorato delle donne è frutto di cause aliene alla fede allora? Non affatto. Anzi possiamo affermare che gli sviluppi interni alla società occidentale (e non solo) a favore della dignità e parità delle donne sono, almeno in parte, imputabili all’influenza del Vangelo. Considerando il sacerdozio di ogni credente abbiamo detto che il protestantesimo, eliminando la distinzione tra sacro e profano, non solo laicizzava la chiesa ma anche valorizzava la società come ambito in cui svolgere la propria vocazione. Negli Stati Uniti, per esempio, la lotta per l’emancipazione femminile nasce a partire da donne formate alla scuola di Gesù. Se le chiese evangeliche hanno accolto le spinte provenienti da una cultura e una società in fermento è perché erano in grado di riconoscere in quelle spinte (seppur con la riluttanza che le contraddistingue), l’azione dello Spirito che riforma e rinnova tutte le cose.
Motivi teologici, biblici e culturali dunque sono alla radice della svolta che ha permesso alle chiese protestanti in generale, e quelle del battismo italiano in particolare, ad ammettere le donne al ministero pastorale. Se le donne portano a quel ministero sensibilità, creatività, e visione diverse saranno le chiese a giudicare. Noi ci limitiamo ad offrirvi questo bouquet di fiori, in gratitudine alle donne e agli uomini che, credendo nella nostra vocazione ,ci hanno preceduto sperando che il suo profumo raggiunga, rinfranchi e incoraggi altri e altre ad intraprendere questo cammino.
Elizabeth Green ha approfondito questi temi in “Perché la donna pastore” (1996) e “Il vangelo secondo Paolo” (2009) ambedue pubblicati dalla Claudiana editrice.