Chiamatemi Beppe, Beppe Feisoglio. Sono sposato da 22 anni con Marisa. Nostra figlia Cecilia ha 19 anni e si è appena diplomata al Liceo. Abbiamo diversi interessi e tante amiche e amici. Viviamo in una grande città, frequentiamo la locale chiesa battista.
Nella storia della nostra piccola famiglia da qualche mese si è aperto il capitolo Skype. «Scaip» ti permette, via computer, di parlare con persone lontane. È una telefonata che ti consente di conversare tutto il tempo che vuoi con qualcuno, non solo da una città all’altra, ma anche da una nazione all’altra, da un continente all’altro. E non costa nulla. Io non ci capisco niente. Sono stati Marisa e Cecilia a preoccuparsi di installare questo marchingegno con la videocamera, in previsione del trasferimento di Cecilia in una capitale del Nord Europa.
Da quando Cecilia è laggiù (o lassù?) abbiamo degli appuntamenti su Skype/Scaip. Però prima bisogna concordarlo, orario e tutto il resto. Poi si accende il computer, si sentono i gorgoglii della macchina, i vari ronzii e glu glu della connessione. Quando Cecilia compare, la vediamo in primissimo piano. Ci ha fatto vedere la casa dove vive con altre due ragazze, una tedesca, l’altra ungherese. Volontarie come lei per un anno in un Istituto per l’infanzia disagiata. Non è che ci «skypiamo» tutti i giorni, basta un paio di volte la settimana. Con gli amici succede che Marisa ed io dobbiamo dire: «beh, vi dobbiamo lasciare che stasera abbiamo Scaip», tipo quando uno è fissato con una puntata di «Una mamma per amica» o «Squadra antimafia». A me questa storia di Scaip mi piace. Però, certe volte, l’immagine si impalla. Cioè si blocca. Magari le immagini prima rallentano e poi vedo Cecilia «impallata». E non si sente più niente. Immagino che anche lei ci vede «impallati». Per buona crianza non posso riferire le metafore che indirizziamo (cioè soprattutto io indirizzo) agli gnomi che pedalano per far girare Skype. L’unica cosa da fare, ho imparato, è spegnere e riaccendere… e vai con i gorgoglii, i ronzii, il glu glu della comunicazione nell’era della modernità liquida. Nel tempo di Skype gli amici mi chiedono come sta Cecilia. E questo è molto bello. Poi decidono che a me «mi manca». «Eddài, dì la verità, ti manca!», e lo dicono con un’espressione mista tra il contrito e il complice. L’occhietto strizza complicità, le labbra si arricciano di empatia e comprensione. Generalmente rispondo a specchio: loro «Eh?» ed io «Eh!», che a volte nel dir niente c’è il tutto dire.
Con mia moglie Marisa abbiamo deciso di appendere in soggiorno una riproduzione di un quadro di Claude Monet, dal titolo «Bordighera», un paesaggio mediterraneo in cui il mare si intravede tra i pini marittimi. La linea dell’orizzonte interrotta dai rami che ostruiscono la vista dello spettatore, non impedisce di ammirare l’azzurro marino che sfuma nel cielo assorbito dalla luce di quel blu mediterraneo che trasfigura le case e il campanile del borgo in un altrove in balìa dei nostri occhi.
Un mare desiderato. Ma desiderato non è il mare in sé, quanto l’idea che il nostro sguardo può viaggiare lontano, immaginare l’oltre, desiderare «l’infinito in movimento». Di fatto in casa abbiamo sempre incoraggiato Cecilia nell’intraprendere prove di autonomia e l’idea di un anno sabbatico all’estero per conoscersi e saggiarsi meglio prima dell’Università è stata evocata già negli anni della prima adolescenza. Se costruisci un nido, prima o poi qualcuno dovrà volare, o no? A proposito, per il suo 18° compleanno qualcuno aveva regalato a Cecilia un bellissimo libro illustrato. Apparentemente sembra un libro per bambini. Ma, in realtà, è molto di più. Una pagina bianca con una frase brevissima di 2 righe massimo, a commento di una pagina con un disegno incredibilmente espressivo. Il protagonista delle scene è sempre un piccolo anatroccolo. Il titolo è, per l’appunto, Lezioni di volo di un’autrice finlandese Pirkko Vainio (ed. Il Castello, 2009).
È un piccolo compendio delle sorprese della vita, nella «buona e nella cattiva sorte», come quando ad esempio si vede il pulcino vittima di una caduta, in mezzo a pezzi di guscio d’uovo, commentato dalla didascalia «A volte cadere ci aiuta a liberarci del superfluo», oppure quella in cui invece il guscio d’uovo ostruisce la sua vista: «Qualche volta il passato ci impedisce di vedere dove stiamo andando». Lontana da casa quelle “prove tecniche di volo” Cecilia le sta sperimentando? Cecilia si sta misurando con se stessa e sta scoprendo i suoi talenti nascosti. Soprattutto assapora la carica vitale che ti arriva quando ti senti apprezzata e riconosciuta al di là del piccolo mondo degli affetti familiari e amicali. Non è questa una piccola forma di rinascita, un vero e proprio parto minore? Ad ogni modo, padri e figli significano i termini di una relazione. Si è padri e madri in relazione ad un figlio e viceversa. Se il figlio sperimenta una rinascita, questo succede – di riflesso – anche al padre. Rinasce il figlio, rinasce il padre. Cresce e cambia il figlio, crescono e cambiano i padri e le madri.
Nell’ultimo periodo prima di partire, Cecilia si è interrogata con più intensità circa il suo rapporto con Cristo, sulla ricerca di fede, del suo legame con la chiesa che frequentiamo. I nostri momenti di lettura e preghiera familiare sono cresciuti, non tanto di frequenza, ma di profondità. È stato il tempo in cui io e Marisa abbiamo avuto soltanto un ruolo di proposta e ascolto. Abbiamo proposto e informato delle opportunità. Abbiamo ascoltato le paure, i desideri e gli entusiasmi. Un ruolo attivo e di stimolo sulle questioni di fede è stato giocato dal gruppo giovanile della chiesa, dai campi «VariEtà» organizzati dall’Unione battista (UCEBI), dalla Federazione Giovanile Evangelica Italiana (Fgei) e da una bella esperienza di scambio giovanile internazionale con ragazze e ragazzi della chiesa valdese rioplatense.
Cecilia ha voluto appendere accanto alla riproduzione di Monet una riproduzione di un altro quadro in cui si rappresentano dei battesimi in un lago: il cielo è di un rosa aurorale, le ragazze e i ragazzi in tunica bianca attendono il loro momento, mentre c’è chi prega, chi medita Bibbia alla mano, chi forse canta sommessamente. Arrivano inaspettate le riflessioni. Anche a me è successo di imbattermi sulle stesse domande: chi è Cristo per me oggi? Professare la fede cristiana è la manifestazione più alta della mia libertà o la manifestazione più evidente del mio conformismo a ciò che gli altri si aspettano da me? (Matteo 8, 21-22).
Ogni tanto predico in chiesa. In una di queste occasioni, come d’abitudine, ho ripreso il brano del Lezionario “Un giorno una parola” suggerito per la predicazione di quella domenica. E il brano era Luca 9: 57-62. Un brano durissimo in cui Gesù invita uno alla sequela («Seguimi!») e quando questi gli risponde «Permettimi di andare prima a seppellire mio padre» Gesù replica «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; ma tu và ad annunziare il regno di Dio».
È un brano che mi ha sempre tramortito, già da quando lo leggevo con occhi «di figlio in conflitto col padre». Figuriamoci a leggerlo oggi con occhi «di padre in armonia con la figlia». Ho pensato che ogni sdolcinata lettura al retrogusto di sagrestia di questo versetto ne svuotasse non solo la radicalità, ma anche il senso del nostro stare a tu per tu con la ragione ultima del vivere. Ho pensato che la voce di Gesù che chiama rende unici. «Unici» non solo nel senso di «speciali», ma anche nel senso di «soli». Scrive Dietrich Bonhoeffer: «La chiamata di Gesù alla sequela fa del discepolo un singolo… Ognuno è chiamato da solo» (Sequela, Queriniana, Brescia 2008, p. 85). C’è dunque un interessante paradosso nella solitudine di chi è chiamato, nel suo singolare isolamento: egli è solo in quanto a tu per tu con Cristo. A tu per tu con Cristo scopre la sua individualità. Niente gli è d’aiuto per afferrare il senso e le conseguenze di questo duplice incontro (incontro con Cristo – con se stessi): tutto quello che desidera o che ha imparato di sé, del rapporto con gli altri e con il mondo, non servono, possono persino diventare schermo deformante, ostacolo, fraintendimento. Di fronte a questo testo siamo soli: non ci aiuta l’appartenenza, né la migliore istruzione religiosa ricevuta, né la tradizione. Una solitudine sorella, benefica e creativa, lontana dalle tentazioni di compiacere gli affetti o di cedere al quieto vivere nel mezzo della grande lotta per afferrare il significato della vita. La pratica di una religiosità esteriore non serve ad arginare gli sgretolamenti del senso, semmai ne accentua gli smottamenti. Perché persino la comunicazione con Dio a volte si «impalla» e non ti sarà sufficiente spegnere e riaccendere i collegamenti. Non sei mica su Skype! Allora, cara Cecilia, la tua solitudine e la nostra, quella solitudine buona, quella cercata e non quella subìta, la solitudine sorella, la solitudine trasformativa, non è la premessa della tua fragilità, ma la condizione per tirare fuori tutto il potenziale creativo che hai sempre avuto ogni volta che ti sei interrogata sulla ricerca della felicità. E quand’anche la fede ti risultasse manchevole o inesistente considera la coscienza di vivere «come se Dio non ci fosse» illuminata dalla gratuità dello Spirito della vita che ci precede, il quale non guarda ai meriti, alle prestazioni, alle affermazioni in società, non guarda all’aver risposto o meno alle aspettative che altri hanno proiettato su di te. E sul futuro, non temere. Non temere di non farcela, poiché, è assolutamente irrilevante agli occhi dell’amore. Agli occhi dell’amore è rilevante essere docili con i propri sogni.
Lezioni di volo si chiude con il pulcino con il becco all’insù, verso il cielo in una limpida notte stellata, mentre contempla l’infinito: «Non è necessario raggiungere le stelle per toccare il cielo».