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intervista a Carmine Bianchi

Il pastore Carmine Bianchi è segretario del Dipartimento chiese internazionali (Icd) dell’Unione cristiana evangelica battista d’Italia. A lui sono state rivolte alcune domande sulle sfide teologiche e culturali che le chiese battiste stanno affrontando oggi.

– Negli ultimi decenni l’Italia è diventata terra di immigrazione, dopo essere stata per molti anni un paese di emigrazione. Un certo numero di immigrati, provenienti da chiese evangeliche, si sono inseriti nell’UCEBI. Come è vissuta questa presenza dalle chiese battiste italiane? 

«Le chiese battiste storicamente sono state chiese “aperte” agli immigrati e lo sono tutt’ora. Oggi l’Ucebi è formata per un terzo da chiese di immigrati, ma anche molte chiese locali tradizionalmente italiane oggi sono formate da italiani e immigrati, fratelli e sorelle di diverse nazionalità. Inevitabilmente ognuno di noi porta con sè il proprio bagaglio culturale, chi è nato e cresciuto in una chiesa ne ha assorbito i modi di fare e di essere. L’Unione battista e le chiese che ricevono gli immigrati sono chiamate a sviluppare un’apertura, una disponibilità a recepire esperienze diverse e ad integrarle. La chiesa locale, e l’Unione stessa, ricevono sollecitazioni da questi fratelli e queste sorelle – che in parte vorrebbero veder riprodotta nella chiesa in Italia i modelli che hanno lasciato nel proprio paese – e fanno i conti con la tentazione di chiudersi in difesa della propria identità».

– Può spiegare meglio cosa significa che le chiese battiste italiane sono comunità “aperte”? 

«Le nostre sono chiese che storicamente accettano il pluralismo di idee e di prassi, la diversità ed anche il dissenso al loro interno; l’obbiettivo del pluralismo è il riconoscimento reciproco delle diversità e la convinzione che la diversità arricchisce. Una chiesa pluralista deve avere però un “presupposto fondamentale”: le altre posizioni diverse hanno la stessa dignità della propria. L’integrazione tra chiese diverse, che hanno presupposti culturali e teologici diversi, è possibile solo se esiste di fatto un riconoscimento reciproco».

– Spesso la resistenza a integrare la diversità affonda le sue radici nella paura di perdere la propria identità. Questa preoccupazione è presente all’interno dell’Unione battista? 

«È un timore degli italiani, ma soprattutto degli stranieri. Identità è “riconoscersi ed essere riconoscibili”, dice Giovanni Jervis nel suo testo La Conquista dell’identità. Essere se stessi, essere diversi (Feltrinelli, 1999). Viviamo in un tempo delle fragili identità. Abbiamo paura di non essere accettati, di essere uno fra i tanti, di essere inghiottiti dall’anonimato. Questa paura è generalizzata, ma è molto più profonda negli immigrati. Proviamo a metterci nei panni di una persona che viene sradicata da una serie di rapporti affettivi (famiglia e comunità allargata), da un luogo, da abitudini consolidate. Queste persone devono lottare perché la loro identità sopravviva. Perché oltre alla difficoltà a mantenere la loro identità in un contesto diverso, devono lottare anche perché hanno “la sensazione di non essere considerati (da parte della maggioranza privilegiata), ma anche perfino, come molti lamentano, di non essere neppure visti, come se fossero trasparenti. Questa esperienza intacca anch’essa uno degli aspetti fondamentali del sentimento d’identità” (Op. cit. p. 37). In questo caso è vitale un saldo legame con le radici, con il passato, le tradizioni, il cibo, nel caso delle chiese, con il modo di celebrare il culto, con l’organizzazione sociale che gli immigrati avevano nella loro terra d’origine. “Essere poveri di identità significa non soltanto soffrire, ma anche veder diminuire la propria capacità di sopravvivere” (ibidem).. Nella mia esperienza di visitatore abituale di chiese evangeliche composte da stranieri mi rendo conto che per questi fratelli e sorelle il tempo in cui si incontrano in chiesa per celebrare e rendere il culto al Signore, diventa un tempo prezioso per rivivere gesti famigliari, ritrovarsi per poter essere un gruppo con una propria dignità culturale e cultuale. Tutta la settimana vivono in luoghi di lavoro, dove spesso vengono a malapena tollerati, ma la domenica si incontrano in un luogo “loro”, dove si sentono protetti da gesti, odori, lingue famigliari e questo fornisce loro un’esperienza di salvezza, di liberazione. La fede diventa per loro un luogo sacro in cui ritrovare se stessi, Dio, le proprie radici. Visitare queste chiese è per me un’esperienza di grande arricchimento spirituale e umano».

– Fin dal suo sorgere il Cristianesimo si è confrontato con le diversità al suo interno…

«Il Cristianesimo si è dovuto rapportare abbastanza presto con la diversità culturale di cui era anche portatore. Considerato inizialmente una setta all’interno del giudaismo, il Cristianesimo successivamente si è sviluppato come religione autonoma dall’ebraismo. La prima comunità cristiana ha dovuto fare i conti con il problema della diversità e si è dovuta porre il problema dell’inculturazione. Gesù di Nazareth era ebreo, circonciso, sottoposto alla Torah. Il Cristianesimo, con l’inserimento dell’ala ellenista, si trovò confrontato con un’altra cultura e con altre esigenze. Doveva decidere se rimanere una costola del Giudaismo o essere aperto alle sfide culturali del mondo con il quale era venuto in contatto».

– La multietnicità è una realtà della nostra società e della chiesa. Siamo di fronte ad un processo irreversibile?

«Nelle nostre comunità è oramai diffusa su larga scala una multietnicità, dovuta alla presenza di immigrati, ma dobbiamo sviluppare una tensione costante verso multiculturalità. Multiculturalismo è un termine prescrittivo, in quanto descrive un progetto che si propone di realizzare (crf. Vincenzo Cesareo, Società multietniche e multiculturalismi, ed. Vita e pensiero, Milano, 2000).

Le chiese battiste stanno prendendo coscienza che la partita si gioca proprio nella capacità di includere, non di escludere, di pensare in termini di universalità e di reciprocità, non di particolarità e di superiorità, di accettare la sfida dell’integrazione fra etnie, popoli, culture e teologie diverse, senza pretese di esclusività, di indipendenza, di assoluta sicurezza. Vi sono attualmente nelle nostre chiese fermenti, idee, esperienze capaci di sostenere questi tentativi».