di Cristina Arcidiacono
La parola Resurrezione appartiene al linguaggio della chiesa più che a quello delle Scritture. «Risorgere» traduce sia il risvegliarsi, che l’essere rialzato, messo in piedi. Entrambi questi verbi sono presenti in Efesini 5, 14: «Risvègliati, o tu che dormi, e alzati dai morti, e Cristo ti inonderà di luce». Interpretando così le parole di Isaia 26,19 e 60,1.
Nel suo ministero Gesù ci ha dato degli assaggi di resurrezione: ha guarito ammalati, accolto quante erano escluse, predicato l’accoglienza e l’amore oltre i confini delle leggi, riportando alla vita quanti e quante vivevano come morti. La morte non ha l’ultima parola. Nella vita terrena prima di tutto. Gesù è la resurrezione e la vita e ci chiama a vivere la nostra vita all’interno della resurrezione che egli ci offre: svegliarci dal torpore e svegliare quanti e quante si sentono atterrati, esclusi, moribondi, rialzarci e rialzare quanti e quante sono a terra, vivere con gratitudine la vita che ci è stata donata, con senso. Perché è nella nostra vita che la morte si insinua; non solo quella fisica, ma anche quella delle relazioni interpersonali, la morte della speranza. Affinché con Marta possiamo rispondere, sì io credo.
Vivere da risorti
Nell’anticamera del campus biomedico di Roma, mio padre ed io aspettavamo che Viviana facesse la sua tac, escamotage tecnico per non affrontare la verità, almeno una parte di essa, da parte del medico: «Ho sempre pensato che fossimo una famiglia benedetta» mi è uscito dalla bocca, che ad ascoltarle, le mie parole mi sembravano disarmanti. Certo che lo eravamo, sapevo che la benedizione di Dio non si misura in cose che vanno bene, ma lasciavano un dubbio, che cercava una risposta adulta, come quando ero bambina. E lì penso mi sia stato annunciato l’evangelo. «Certo che siamo una famiglia benedetta», mi rispose mio padre. E mi ripete l’episodio di Giovanni 11. Quando Lazzaro muore, Gesù arriva da Marta e Maria dopo quattro giorni che lui è già nel sepolcro e c’è questo dialogo che ricordiamo:
Marta dunque disse a Gesù: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto; e anche adesso so che tutto quello che chiederai a Dio, Dio te lo darà». Gesù le disse: «Tuo fratello risusciterà». Marta gli disse: «Lo so che risusciterà, nella risurrezione, nell’ultimo giorno». Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu questo?» (Giov. 11: 21-26).
Gesù dice «Io sono la resurrezione e la vita», non dice la vita e la resurrezione, non rispetta l’ordine cronologico. È la resurrezione di Cristo, la resurrezione che è Gesù Cristo e che lui porta, che dà luce alla vita, che la rende nuova. Da quel giorno ho associato la resurrezione alla benedizione. Riconoscere l’esserci di Dio quotidiano, nella buona e nella cattiva sorte è un modo per riconoscere che Cristo è la resurrezione e la vita, che la resurrezione non è un prolungamento della vita, ma è vita altra, fondata da un Altro, per il quale l’ultima parola sulla mia vita non è nemmeno mia, o della morte stessa, ma sua.
Il lessico della vita è, assieme a quello dell’esaltazione e del risveglio, un altro modo per dire la Resurrezione nelle Scritture.
Daniel Marguerat analizza il testo di Marco 12, 18-27
«Poi vennero a lui dei sadducei, i quali dicono che non vi è risurrezione, e gli domandarono: «Maestro, Mosè ci lasciò scritto che se il fratello di uno muore e lascia la moglie senza figli, il fratello ne prenda la moglie e dia una discendenza a suo fratello. C’erano sette fratelli. Il primo prese moglie; morì e non lasciò figli. Il secondo la prese e morì senza lasciare discendenti. Così il terzo. I sette non lasciarono discendenti. Infine, dopo tutti loro, morì anche la donna. Nella risurrezione, quando saranno risuscitati, di quale dei sette sarà ella moglie? Perché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù disse loro: «Non errate voi proprio perché non conoscete le Scritture né la potenza di Dio? Infatti quando gli uomini risuscitano dai morti, né prendono né danno moglie, ma sono come angeli nel cielo. Quanto poi ai morti e alla loro risurrezione, non avete letto nel libro di Mosè, nel passo del pruno, come Dio gli parlò dicendo: “Io sono il Dio d’Abraamo, il Dio d’Isacco e il Dio di Giacobbe”? Egli non è Dio dei morti, ma dei viventi. Voi errate di molto».
Gesù in un certo senso dà ragione ai sadducei: la resurrezione non è dell’ordine della vita materiale, come invece credevano i farisei: mia moglie, mio marito, non hanno senso, i possessi, i conflitti, le recriminazione, sono nell’ordine della vita di qua.
«Sono come angeli», cioè, devono tutto a Dio. Il nostro mondo e l’altro sono separati da una differenza qualitativa. Non un prolungamento della vita, ma un tutt’altro, che appartiene a Dio solo.
I racconti di Pasqua raccontano proprio di questo: Cristo risorto è corpo, ma non viene riconosciuto, è a Gerusalemme e subito dopo in Galilea, mangia e passa attraverso i muri: la vita nella resurrezione sorpassa il nostro intendimento e si sofferma sulla percezione del mistero di Dio.
Il dialogo continua: Il riferimento all’episodio del pruno ardente che cosa significa? Vuole forse sottolineare che i morti devono seppellire i loro morti? Dio non è il Dio dei morti, ma dei viventi, vuol dire forse che Dio non ha niente a che vedere con i morti? L’io sono, non è un io fui: passato e presente e futuro in Dio sono una cosa sola. È la memoria di Dio che lavora e che rende presente il passato. Non fu il Dio delle madri e dei padri. Lo è. Gesù non si fa trascinare, come vorrebbero i sadducei a una dimostrazione oggettiva su che cosa ne è stato dei patriarchi, attesta che per Dio essi sono vivi. Sono presenti nella sua memoria. Questo è anche il senso del sepolcro vuoto. Le donne che cercavano il corpo di un morto, trovano un’assenza e l’annuncio che Gesù è vivo, Dio lo ha resuscitato.
Meditazione sulla vita futura
È Calvino che mi scuote in questo mio cercare.
«È mostruoso che parecchi che si vantano di essere cristiani, lungi da desiderare la morte, l’abbiano in tale orrore che appena ne odono parlare tremano, come se si trattasse della peggior disgrazia che possa loro accadere. (…) È intollerabile che in un cuore cristiano non ci sia abbastanza luce da sormontare e travolgere questo timore con una consolazione più grande». Così nella «Meditazione sulla vita futura» che chiude il terzo libro dell’Istituzione della religione cristiana.
Quando durante un culto ho chiesto alla chiesa come ciascuna e ciascuno vive la fede nella resurrezione, Adele, quando sembrava che non ci dovessero essere più interventi (diverse erano state le parole usate: “mistero”, divenire ancor più parte del creato, vita come quella dei sogni, altra ma non meno reale), ha detto: «Forse mi sbaglio, non so se aggiungo un tassello a questo mosaico, ma mi hanno insegnato che la mia vita è per la vita dopo la morte».
«Se il cielo è la nostra patria, che altro è la terra, se non un passaggio in terra straniera, e, nella misura in cui essa è maledetta per noi a motivo del peccato, un esilio e anche una proscrizione? Se la partenza da questo mondo è un entrare nella vita, che altro è questo mondo se non un sepolcro?».
Le parole di Calvino che esortano a disprezzare questa vita, alternativa ad una relazione idolatrica con essa, mettono in tensione il tentativo di vivere con gratitudine il dono di Dio, con responsabilità la vita e la vocazione, con la speranza futura: «Se abbiamo sperato in Cristo per questa vita soltanto, siamo i più miseri di tutti gli uomini».
La fede nella resurrezione afferma anche che l’ultima parola sulla vita di una persona non è detta dai suoi boia, dalla malattia, dalla guerra. «Io ti celebrerò perché sono stato fatto in modo stupendo».
La parola di Pasqua non cerca di negare la morte, di evitarla, di addolcirla, ma di dare senso ad essa, di contraddire l’idea che Dio non abbia più niente da dire di fronte ad essa. Non è dunque il silenzio della morte a preoccupare, ma il silenzio di Dio.
Resurrezione come insurrezione a tutto ciò che è distruttivo delle persone: la vita di una persona non è riducibile a ciò che ha detto e fatto, c’è mistero, un’Altra dirà di me (I Cor. 13, 12).
Unicità della vita, statuto di dono della resurrezione, il «noi» della resurrezione. La resurrezione dice sì alla fragilità dell’esistenza. La resurrezione non offre un supplemento di vita, ma una vita altra fondata da Dio: «Io sono la resurrezione e la vita».
(Stralci dalla relazione tenuta in occasione della «Giornata Miegge», Torre Pellice, 2015