a cura della Redazione
Riportiamo di seguito parte del Documento n. 12 «Direttive anticipate», elaborato dalla Commissione della Tavola valdese per i problemi etici posti dalla scienza.
Sospensione delle cure
Che cosa succede con i malati gravi che non hanno lasciato alcuna direttiva anticipata di trattamento? Chi si fa interprete della loro voce? Tristram Engelhardt (Manuale di bioetica, Mondadori, 1999, II edizione) sostiene che «Gli individui appartenenti a particolari contesti morali possono comprendere che cosa vale la pena di fare e che cosa no». La questione è però assai più complessa. Si tratta sempre e comunque di fare ricorso a un «giudizio sostitutivo», che può essere quello di un congiunto, dei familiari, degli amici o anche di un tutore legale.
In numerosi ospedali sono presenti dei comitati etici che svolgono spesso un utile servizio di orientamento, ma lasciano aperti anche molti problemi. Come dar voce a chi non l’ha quando si tratta di interpretare uno stato di sofferenza e di dolore, di cogliere la volontà di chi non è più in grado di volere? È più che comprensibile che su questo terreno incerto la bioetica sia sempre più confrontata con questioni di giurisprudenza; al tempo stesso però deve preoccupare la tendenza a voler risolvere con il diritto le questioni etiche conflittuali. Che cosa dire, da un punto di vista pastorale? Come caratterizzare il senso e la pertinenza di un approccio pastorale al problema?
La questione deve situarsi nell’ambito di un approccio interdisciplinare in cui non è data alcuna risposta precostituita. Guai se la teologia pastorale pretendesse di impugnare la spada della verità da usare contro le discipline umane per sostenere un proprio punto di vista insindacabile. È vero che questo è l’atteggiamento massimalista della morale cattolica ufficiale; è una posizione rispettabile ma non è la posizione cristiana tout court, è una posizione fra altre, discutibile come le altre, ed è infatti discussa da molti cattolici che ne prendono apertamente le distanze. Il principio della inviolabilità della vita umana è certamente un principio condivisibile da tutti, credenti e non credenti. Non può però essere impugnato in modo astratto e assoluto il principio della non disponibilità della vita che deve invece anch’esso situarsi nella realtà delle situazioni di conflitto in cui viene a trovarsi una persona particolare e non l’umanità in generale. La stessa tradizione biblica ci orienta in questa direzione quando ci confronta con le narrazioni biografiche e con le trame che le caratterizzano. Un approccio pastorale deve situarsi consapevolmente nel contesto di altri approcci e di altre competenze: ogni sapere, anche quello teologico, va situato in un più ampio cerchio ermeneutico all’interno del quale deve formarsi la decisione. Si tratta di essere all’ascolto di competenze diverse che cercano di interpretare il caso particolare. Che ciò comporti umiltà e il riconoscimento di una comune in-competenza di fondo dovrebbe evitare affermazioni assolute e arroganti. Su questi problemi ultimi, lo Stato è incompetente così come lo sono le Comunità religiose. Qualcuno però deve prendere una decisione responsabile. E tale decisione non può che essere il risultato di un lavoro collegiale di tutti gli interessati, in cui ognuno sa di non possedere dei criteri assoluti da contrapporre ad altri. La domanda: chi decide per lui/lei quando non ha voce, è una domanda che richiede una decisione responsabile, ma è anche questione permanentemente aperta, che deve restare aperta, affinché le decisioni umane che si devono prendere siano consapevoli di questa sostanziale in-competenza all’origine.
Entrando ora nel merito della sofferenza di persone che sono invece pienamente lucide e consapevoli del loro stato di malattia, sosteniamo il loro pieno diritto di assumere la decisione ultima sulla sospensione delle cure e il loro diritto a morire. Paul Ricoeur ha combattuto ogni concezione totalizzante della norma morale, sostenendo che l’esigenza di universalità della norma non può essere interpretata a sé ma unicamente in relazione alla singolarità e unicità di ogni persona umana. La vita umana è fatta anche di «tragicità» ed è dunque compito dell’etica e della pastorale confrontarsi seriamente con la dimensione di conflitto che è propria dell’umano. «La saggezza pratica» ricoeuriana sostiene l’esigenza etica di «dare la priorità al rispetto delle persone, nel nome stesso della sollecitudine rivolta alle persone nella loro irrinunciabile singolarità». Ed è sempre nel nome di questa saggezza pratica che siamo chiamati a «inventare i comportamenti giusti e appropriati alla singolarità dei casi». È quanto suggerisce l’antica Regola d’Oro ripresa anche dai vangeli: «Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro» (Mt. 7,12; Lc. 6,31); si richiede reciprocità nella disponibilità. Si resta nell’ambito di un’etica di umanità che situa la norma all’interno di un patto di alleanza con l’altro da me: «puoi contare su di me», che evita l’impersonalità di una norma che può diventare disumana quando si erge a principio oggettivo e non vuol saperne di eccezioni. In ogni situazione conflittuale resta dunque viva e operante la dimensione della reciprocità della promessa. Anche in bioetica l’approccio relazionale è quello decisivo, non quello biologico né quello ontologico. In questa cornice l’etica medica può riconoscere il diritto del paziente a decidere la sospensione delle cure e il suo diritto a una morte dignitosa.
COMMISSIONE DELLA TAVOLAVALDESE PER I PROBLEMI ETICI POSTI DALLA SCIENZA
(Commissione Bioetica)