A insanguinare le strade di Johannesburg e Città del Capo, in questi giorni, è la violenza contro gli immigrati. I morti si contano a decine, la rabbia si scatena contro coloro che sono più poveri e senza speranza. Ci sarà un futuro di guarigione per il Sudafrica?
Dieci anni fa venivano resi noti i risultati della Commissione Verità e Riconciliazione (Truth and Reconciliation Commission). Si condensava, nel lavoro di quella Commissione, il desiderio di ricostruire la verità e di porre le basi per la riconciliazione, dopo decenni di regime segregazionalista. Una perla preziosa: guidata dal Nobel per la pace Desmond Tutu, la Commissione ha svolto in quattro anni un immane lavoro di ricostruzione dei crimini commessi durante il regime dell’apartheid; ha amministrato la verità, più che la giustizia, ispirandosi al concetto tradizionale africano di “ubuntu”: non una giustizia punitiva, ma una giustizia restituiva, che tenda a risanare le ferite e riabilitare tanto le vittime che i criminali. Scopo non era la punizione dei colpevoli, ma l’ascolto delle testimonianze di entrambe le parti in causa, con la possibilità di concedere l’amnistia a chi confessava i propri crimini. La commissione portò alla luce crimini e violenze commesse dal governo dell’apartheid, dalla polizia, dall’esercito, ma anche dall’African National Congress, movimento di liberazione che si opponeva al regime. Mentre le ferite erano ancora terribilmente fresche, la Commissione Verità e Riconciliazione lavorò per mettere le basi della riconciliazione nazionale. Furono concesse 849 amnistie e ne furono negate 5392.
«Eravamo fragili e fallibili, veri vasi di coccio, come dice san Paolo, e quindi sia chiaro che il merito di tutto è stato interamente di Dio». Questo era il pensiero dell’arcivescovo Tutu, mentre consegnava nelle mani dell’allora presidente Nelson Mandela «i cinque volumi rilegati in cuoio» della relazione conclusiva, nell’ottobre del 1998. «Ero grato che Dio – scrive Tutu – fosse stato così buono con noi, che ci avesse fatto superare momenti di così duro cimento; ero grato per la verità che ci aveva permesso di scoprire, per averci reso veicolo di guarigione, di compimento, di riconciliazione”1. La Commissione fu una grande opportunità di rinascita. La memoria non fu utilizzata per ferire e perpetrare altre violenze, ma per sanare e riconciliare. L’uno di fronte all’altro, vittime e carnefici delle violenze ebbero l’opportunità di guardarsi negli occhi, ascoltarsi, raccontare le rispettive colpe.
A dieci anni da quei giorni è lecito chiedersi se quel sogno di guarigione non si stia infrangendo contro la realtà di un paese devastato da povertà, ingiustizia economica e malattie. Il Sudafrica è devastato dall’AIDS: si stima che il 40% delle morti di persone fra i 15 e i 35 anni sia causato da questa malattia, in un paese dove l’aspettativa di vita supera di poco i 50 anni. La povertà e l’esclusione sociale sembrano essere ancora le cifre predominanti nella vita della maggior parte dei sudafricani: milioni di persone che abitano nelle township devono constatare ancora sulla propria pelle che se il regime basato sulla segregazione è terminato da quasi quindici anni, la marginalità sociale e la povertà restano l’elemento costitutivo della società sudafricana.
Con la povertà si accompagna la violenza. La scorsa primavera si è scatenata la rabbia contro gli immigrati: ci sono state decine di morti a Johannesburg, fra i disperati in fuga dallo Zimbabwe, dal Mozambico, dal Malawi. La rabbia verso l’immigrato, che potrebbe portare via il lavoro e costituire un elemento destabilizzante; la polizia che interviene duramente per sedare gli scontri; i corpi rimasti al suolo e decine di innocenti uccisi in modo barbaro; migliaia di immigrati che cercano rifugio altrove, molti chiedendo asilo nelle chiese: questo il quadro che abbiamo davanti agli occhi. E nei giorni degli scontri ci sono state anche le chiese metodiste, che hanno dato rifugio a migliaia di immigrati e sono state prese d’assalto. Sul banco degli imputati, ancora una volta, l’ingiustizia economica e la povertà: in alcune regioni del Paese, d’altronde, i poveri sono il 60-70% della popolazione e nulla sembra cambiato dai tempi del regime dell’apartheid. Solo che la rabbia si dirige adesso verso chi è ancora più debole: in Sudafrica sarebbero cinque milioni i clandestini, un numero che costituisce il 10% circa dell’intera popolazione.
Mentre la guerriglia esplodeva nelle strade di Johannesburg è stato ancora Tutu che, proprio nelle settimane così difficili per il Paese, ha richiamato i sudafricani al proprio recente passato: ha ricordato infatti che le vittime delle aggressioni vengono spesso da paesi che hanno dato rifugio ai combattenti anti apartheid. «Non possiamo ringraziarli – ha detto – uccidendo i loro figli, non possiamo disonorare la nostra lotta con questi atti di violenza». D’altra parte molte voci hanno criticato l’operato del governo sudafricano, che avrebbe continuato ad appoggiare Mugabe, nella crisi degli ultimi mesi dopo le elezioni nello Zimbabwe del 29 marzo scorso: un comportamento che avrebbe contribuito a trasformare in polveriera quel paese, accentuando il flusso di disperati che cercano rifugio in Sudafrica.
La guarigione sembra ancora lontana. Questa non potrà mai compiersi, finché l’ingiustizia economica, la povertà e l’esclusione sociale continueranno a segnare il destino di milioni di uomini e donne, in Sudafrica e non solo. Un sogno di riconciliazione e guarigione, quello di Tutu e Mandela, per il quale il popolo sudafricano deve ancora lottare. Anche le chiese, che hanno saputo dire parole chiare di pentimento nel passaggio verso la democrazia, continuano ad avere un ruolo di grande responsabilità: dovranno lavorare per non lasciare che il percorso di guarigione e riconciliazione si perda oggi nei nuovi ghetti della povertà e dell’esclusione.